Nella primavera-estate del 1992, dopo che l’opinione pubblica italiana era stata scossa dallo scandalo di “tangentopoli”, il Paese fu colpito da nuovi e brutali attacchi della mafia. Venuta meno la tradizionale rete di connivenze, in un incerto contesto politico nazionale, la mafia rialzò la testa: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, i due giudici di Palermo che avevano condotto importanti indagini su Cosa Nostra, il cui risultato fu il maxiprocesso contro la mafia tenutosi nel 1986-1987, furono assassinati.
Il 23 maggio 1992, sull’autostrada per Palermo, all’altezza dello svincolo di Capaci, una potente esplosione travolse l’auto su cui viaggiava Falcone, insieme alla moglie Francesca Morvillo e ai tre agenti della scorta. Il 19 luglio dello stesso anno, in via D’Amelio a Palermo, l’esplosione di un’autobomba uccise Borsellino, mentre si recava in visita dalla madre, e cinque uomini della scorta. Gli efferati attentati non riuscirono però a frenare un processo inarrestabile di riscossa civile favorito dalla dignità, dalla coerenza e dalla determinazione dei due magistrati nello sfidare la criminalità organizzata: Falcone e Borsellino, infatti, avevano dimostrato che le organizzazioni mafiose non erano invincibili e i loro capi o membri potevano essere assicurati alla giustizia.
La lotta alla mafia condotta dai due magistrati palermitani resta nella memoria di quanti hanno compreso che, senza la collaborazione di Istituzioni e società e la diffusione di una cultura della legalità, non è possibile contrastare la mafia.
Certo, la strada da percorrere è ancora lunga dato che le mafie sono in continua evoluzione, ma l’eredità di Borsellino e Falcone resta nella consapevolezza che ciascuno di noi è chiamato a compiere il proprio dovere per preservare una società democratica, in grado di “avviarsi serena nel cammino verso un domani migliore”.