Nel 1992 l’Italia dei partiti fu scossa da Tangentopoli, termine inizialmente usato per indicare il sistema di corruzione presente nella città di Milano per poi allargarsi a tutto il Paese. Il 17 febbraio di quell’anno, infatti, il socialista Mario Chiesa, direttore del Pio Albergo Trivulzio di Milano, fu arrestato per aver intascato una tangente di sette milioni di lire da Luca Magni, un piccolo imprenditore monzese che aveva denunciato Chiesa e deciso di collaborare con il magistrato Antonio Di Pietro per incastrare l’amministratore della casa di riposo per anziani. Aveva inizio così l’inchiesta “Mani Pulite” che sarebbe terminata nel dicembre 1994 e che avrebbe svelato un intricato e diffuso sistema di corruzione per controllare gli appalti negli enti locali comunali e regionali fino ad arrivare ai fondi neri delle imprese e ai conti segreti dei partiti. Il pool di Mani Pulite, composto da Di Pietro, Gherardo Colombo, Gerardo D’Ambrosio e Piercamillo Davigo, sotto la supervisione del procuratore capo Saverio Borrelli, provocò un susseguirsi di arresti, interrogatori e confessioni che trascinarono nello scandalo importanti protagonisti della “Prima Repubblica”, mentre nell’opinione pubblica crebbe la fiducia di poter costruire una seconda Repubblica, fondata sull’onestà.
Sono passati trent’anni da Tangentopoli ma le collusioni tra potere politico ed economico, secondo l’amara logica del gattopardismo, continuano a essere un tratto distintivo del nostro Paese.