Nella storia della medicina la vaccinazione rappresenta una delle principali scoperte scientifiche realizzate dall’uomo che ha permesso di migliorarne la speranza di vita. Ma quando fu scoperta la pratica della vaccinazione come strumento per sconfiggere le malattie infettive?
Era il 14 maggio 1796 quando il medico e ricercatore inglese Edward Jenner inoculò nel braccio di un bambino una piccola quantità di materiale organico infetto, tratto dalle ferite di una donna malata della versione bovina del vaiolo.
Jenner, costatato che il bambino non aveva alcun disturbo, dimostrò che il piccolo era diventato immune alla forma umana del vaiolo.
In seguito fu Louis Pasteur, chimico francese e fondatore della moderna microbiologia, a compiere un importante passo nella pratica della vaccinazione: egli capì che non era necessario introdurre nella persona da vaccinare i microbi della malattia, poiché questi potevano essere modificati in modo da ridurre i rischi. Pasteur chiamò questi trattamenti “vaccino” (da vacca), in onore di Jenner che per primo li aveva scoperti, e nel 1885 riuscì a sviluppare il primo vaccino antirabbico. Sono trascorsi più di 200 anni dalle ricerche di Jenner e oggi le vaccinazioni continuano ad avere importanti ricadute sulla collettività soprattutto se consideriamo le disuguaglianze esistenti nel mondo nell’accesso ai vaccini anti Covid-19. Recentemente si è aperto un dibattito tra USA e UE sulla liberalizzazione dei brevetti dei vaccini: il presidente americano Joe Biden considera necessaria la loro liberalizzazione per aumentare la produzione dei vaccini su scala mondiale, l’UE, invece, ritiene prioritario porre fine ai divieti di esportazione dei vaccini in modo da contrastare la pandemia con una reale solidarietà globale.
Ilaria Lembo